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La sfavillante storia dell’architettura INA-Casa

1 Maggio 2018

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, si sa, la situazione italiana era un vero casino.

Si moriva di fame e i bombardamenti avevano mietuto molte vittime e distrutto le case. Mancavano le abitazioni per coloro che erano rimasti. Per non parlare del lavoro.

Il buon Fanfani ne aveva pensata una delle sue per risollevare la situazione. La DC (non quella di Batman) era al potere. Con il solo nome che portava, aveva fatto strage di poveri e cuori. Democrazia (mancava da sempre) Cristiana (una resurrezione in stile Gesù ci voleva proprio). Dopo aver messo al bando la storia italiana più recente, rinnegando il rinnegabile e attuando una mega damnatio memoriae, si era messa all’opera.

 

 

 

Cos’è l’architettura INA-Casa?

Per rimediare ai problemi più insostenibili aveva emanato una legge, la n. 43 del 1949 con lo scopo di ridare lavoro e contemporaneamente ricostruire. L’altisonante Piano Fanfani che faceva eco al mitico Piano Marshall, aveva quindi l’obiettivo di salvare capra e cavoli quando a disposizione non avevamo nient’altro che un mucchio d manodopera non specializzata e molta, moltissima fame.

L’idea era quella di incatenare l’Italia ad uno stato di arretratezza perenne: niente meccanizzazione né industrializzazione del cantiere. Tutti dovevano poter lavorare per eliminare la disoccupazione al più presto. Non c’era tempo o denaro per la formazione aziendale.

Perché è noto che se il mattone è in ripresa, anche l’economia gira. Quindi ponteggi di legno, olio di gomito e via.

 

 

 

Appartenenza. Mica un’emozione da poco.

In sostanza si promuoveva l’autocostruzione. Così anche gli italiani si sarebbero presto affezionati alla causa (e al partito).

L’attaccamento emotivo era stato fondamentale. Ricostruzione veloce garantita e tanto entusiasmo.

Fanfani aveva ben presente quanto fosse determinante il degrado delle condizioni abitative nella definizione dello stato di miseria della popolazione. Aveva unito ciò che sapeva alla questione della carità cristiana definendo l’equazione perfetta per la rinascita. Per questo, il piano era stato finanziato con un sistema misto a cui partecipavano:

  • Lo stato
  • I datori di lavoro
  • I lavoratori dipendenti

Questi ultimi specialmente, contribuivano con una piccola trattenuta dallo stipendio (il costo di una sigaretta al giorno) per aiutare le persone più bisognose. Nel pieno rispetto dello spirito cristiano e nel nome del diritto alla casa.

 

 

 

La promessa dell’edilizia sociale nell’Italia del dopoguerra

Nel giro dei 14 anni del Piano INA-Casa, tonnellate e tonnellate di mattoni e calcestruzzo avevano ricoperto aree sterminate ai margini delle città.

 

 

Quartieri efficientissimi, nuovissimi, servitissimi per famiglie poverissime.

 

 

I migliori architetti italiani avevano prestato il loro ingegno alla causa e soddisfatto le proprie esigenze di risoluzione del problema sociale, così come generalmente piaceva fare all’architetto, qualunque fosse la sua nazionalità. In Italia arrivava prepotente la spinta verso l’edilizia sociale. Con soli 25 anni di ritardo rispetto al resto d’Europa (ma sempre meglio di come andò al Portogallo). I parametri dell’abitabilità di Corbu risuonavano come una voce mai sentita prima nell’Italia superstite della dittatura. Nobili personaggi dell’architettura italiana lavoravano alacremente per noi.

Così, quartieri di nuova concezione nascevano come funghi. Microcosmi isolati come tante città satellite. Riproduzioni estemporanee e moderne di garden cities in mattone, calcestruzzo e prato. Ai margini delle città e della socialità. Nonostante le premesse, sembrava che nel tempo l’esperimento potesse fallire.

E in effetti è andata proprio così. Almeno da un punto di vista sociale.

 

 

 

Il fallimento sociale del piano INA casa

L’isolamento era tale da rendere inutili tutte le attenzioni ai parametri della buona progettazione per il benessere abitativo, all’insegna del comfort. Doveva essere qualcosa di speciale e invece sembrava più l’innesto di un braccio su un corpo che non gli apparteneva. Il rigetto era scontato, anche se sarebbe stato bello che funzionasse, come in Frankenstein Jr. All’inizio in realtà non era male, avevamo una casa dove vivere, ma presto la situazione aveva degenerato in una totale assenza di sicurezza reale e percepita. Oscurità e delinquenza.

A nulla serve il verde se ho paura di vivere un’esperienza all’aperto. Lo spazio non sarà abitato e nel breve tempo declinerà verso un processo di degrado inarrestabile. Il paesaggio avrà un non so ché di post apocalittico.

Su questi fenomeni architettonici e sociali si è sviluppata copiosa la bibliografia.

Jane Jacobs l’aveva detto, analizzando le città americane. Jan Gehl ci ha fatto due maroni così. Ma hanno avuto ragione, eccome se ne hanno avuto. In ognuno dei casi italiani è possibile riscontrare gran parte dei fenomeni elencati in questi libri (come in numerosi altri). Possiamo dire che, nonostante la ricchezza umana, i quartieri figli del piano Fanfani sono morti, ma vorrebbero rinascere. Non vogliono sparire nel mare della città metropolitana ma vorrebbero l’integrazione. Vorrebbero essere riconosciuti, ma la loro identità si basa sull’isolamento nel nome del quale hanno avuto origine. L’eliminazione a posteriori della condizione di ghetto non è semplice. Aprire e rendere ricettivo un costrutto urbano di questo tipo è una delle sfide di oggi.

Il piano Fanfani ha risolto temporaneamente il problema dell’occupazione e della mancanza di alloggi, ma ne ha creato degli altri. Tra gli altri, ha riaperto la piaga della speculazione edilizia.

 

 

 

Lo stile inconfondibile INA-Casa

Però bisogna riconoscere che l’estetica dell’alloggio popolare di questi tempi era davvero riconoscibile. La cifra stilistica era notevole. L’architetto italiano in collaborazione col politico aveva inventato lo stile INA-Casa, così riassumibile:

  • Struttura intelaiata a vista in calcestruzzo armato
  • Chiusure verticali in mattoni
  • Servizi ad esclusivo uso del quartiere
  • Tipologia a torre o a bastimento in prevalenza (alta densità abitativa)
  • Targa identificativa in ceramica
  • Infiniti ponti termici

Parallelamente alla costruzione dei grandiosi grattacieli milanesi degli anni ’50, l’edilizia popolare si moltiplicava rigogliosa e rispondeva con altrettanto grandiosi edifici massivi, dall’aspetto alveolare dell’unitè d’habitation. La mia città ha risposto, per esempio, con i grattacieli del CEP. Svettanti costruzioni sulla cima di uno dei nostri colli. Metri e metri di mattone rosso circondati quantità esagerate di verde pubblico.

Il Piano Fanfani ha creato in 14 anni 2 milioni di vani e ha dato una casa a più di 350.000 famiglie che prima abitavano sotto i ponti, nelle grotte o nelle baracche. Secondo una rigorosa organizzazione gestita da due corpi governativi che si occupavano parallelamente della parte progettuale e della questione economica, ha dato vita al fenomeno delle periferie. Città nelle città. Isole sul territorio, senza un vero piano di attuazione unitario e inclusivo, richiesto a gran voce dagli architetti ma ignorato dalla politica.

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