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Carlo Scarpa e la Tomba Brion. Solo gli amanti sopravvivono

9 Novembre 2022

Si sente il profumo dell’erba e dell’acqua. Un vago odore di freddo.

La brutalità del cemento che abbraccia i colori dei vetri e la luce dell’oro. Ricordo di Bisanzio.

Carlo Scarpa fece promettere alla vedova Brion che non si sarebbe mai più risposata e solo allora acconsentì.

Avrebbe progettato e costruito la tomba di famiglia. Una promessa di amore eterno da parte di Onorina Tomasin per Giuseppe Brion.

Perché l’amore è una cosa seria. L’unica via per sopravvivere persino alla morte.

Era il 1969. E Scarpa era intenzionato ad esprimere al massimo la spiritualità di forza e bellezza, del maschile e del femminile, degli opposti spinti l’uno verso l’altro, del bianco e del nero. Dell’infinito.

È di nuovo struggimento per questo amore che non ha fine.

 

Dal Giappone con furore. L’architettura dello spirito.

Gli echi del Giappone irrompono prepotentemente e silenziosamente. Le acque delle vasche vibrano alle carezze del vento.

Bon-odori in onore dei morti. Scarpa porta lo spirito giapponese della danza per la celebrazione degli antenati. Tra le linee spoglie seppure sinuose del cemento a contrasto con i profili in ottone luccicante al sole del tramonto. Luci e ombre si inseguono a tutte le ore del giorno fintanto che non arriva la notte.

Sembra di vedere le fronde degli alberi di Tsushima muoversi nel vento. I fiori cadere. Eppure, è la campagna veneta quella che ci circonda.

Scarpa si dedica alla creazione della Tomba Brion dal 1970 al 1978. L’anno della sua morte per uno stupido incidente. Proprio a Sendai, in Giappone. La terra delle sue ispirazioni. Quella a cui, un po’, appartiene.

Ha amato così tanto questo progetto che nel suo testamento chiede di essere seppellito proprio lì.

Ed è lì che riposa. In un angolo appartato e discreto. Nella manifestazione più alta del suo spirito di creativo e artigiano.

 

L’architettura, l’artigianato e l’eredità veneziana

E si vede che Scarpa è un artigiano. E un veneziano, che si è nutrito della sua storia, delle sue tradizioni. Della sua cultura di terra di confine, che non è occidente e non è oriente. Che è entrambe le cose. Che è saggia e spirituale. Che è ricca di ogni cosa anche quando colpita e in disgrazia.

L’accostamento dei materiali, così diversi, è tipicamente suo. Il cemento, i mosaici, i vetri, il marmo, il legno. Scarpa sente attraverso gli occhi e le mani le loro consistenze, vede nel loro accostamento la poetica dietro l’architettura.

Raccoglie la lezione del movimento moderno e la riscalda. In un certo senso eredita la passione di Wright per l’oriente, ma ne fa qualcosa di più che una semplice ispirazione. La trasforma in una cifra stilistica. Non si tratta di un passeggero periodo picassiano.

Sommo cultore delle culture orientali, Scarpa intraprende il primo viaggio proprio in quel periodo e ne cattura l’essenza. Dice che con un giardino ci si può sentire felici per tutta la vita.

E anche dopo la vita.

 

“Se vuoi essere felice per tutta la vita, fatti un giardino.”

 

In un’altra occasione aveva detto di voler ritagliare l’azzurro del cielo. Nella Tomba per Onorina e Giuseppe, che si amavano così tanto, è riuscito a spingersi ancora oltre, ritagliando un pezzo di cielo.

Portandolo in terra e lasciando che questo restasse immortale.

Non esiste opulenza, né alcun eccesso. Tutto della Tomba Brion sussurra.

 

L’eredità giapponese del culto della morte. Un museo delle anime

I due cerchi all’ingresso che si intersecano, segnano il confine dei vivi e dei morti. Lo spirito degli amanti che sopravvive nell’eternità.

La concezione e la percezione del percorso sono vive nelle architetture di Scarpa. Qui si snoda tra la vita e la morte, tra la carne e lo spirito, tra la meditazione e la preghiera.

I profili solenni del cemento hanno dentro di sé un ricordo di futurismo, una vena di moderno e un sentore di solennità delle sepolture egizie. Un soffio di Art déco. Che spira lungo le luccicanti linee di ottone che segnano la presenza di un corridoio lungo e stretto.

Alla fine, un cancello di cristallo scompare nell’acqua e il percorso che prima sembrava un vicolo cieco, si ricongiunge con il giardino zen. Poi, uno spazio dedicato alla meditazione. Sembra sospeso a mezz’aria. Una distesa di ninfee fiorite, addormentate sull’acqua, riempie lo sguardo.

Dalla parte opposta inizia il percorso terreno. Una traccia di tessere bianche e nere da seguire fino alle sepolture. L’arcosolio di antica memoria paleocristiana invita ad entrare. Anche se uno alla volta. Lì dove dimorano i Brion. In sepolture ricavate da un solo blocco di marmo rivestito d’ebano. I loro nomi in avorio le decorano. Vicine, le tombe dei loro cari, riposano sotto la copertura di un’edicola. Una fenditura taglia la linea di colmo. Forse per lasciare che le anime possano arrivare fino in cielo.

 

Immagine dell'interno della Tomba Brion di Carlo Scarpa
Carlo Scarpa, Tomba Brion (1970-78). Foto di Martino Pietropoli. Free licence, Unsplash.com.

 

L’architettura purificatrice. Una soglia tra la vita e la morte.

Nella cappella si respira il profumo delle sale da tè giapponesi. La copertura piramidale a gradini ricorda una pagoda. La punta tagliata, fonte di luce. Di fronte, un grande arco decorato di blu e d’oro si apre verso l’esterno. Un portale dimensionale. Stargate. Di nuovo un vago sapore di sepolture dei reali dell’antico Egitto.

La luce del sole entra sinuosa al suo interno. Si riflette sulle superfici, sfugge all’esterno attraverso i tagli nella muratura. Stavolta Scarpa gioca con la natura che avvolge la Tomba Brion. Fa in modo che entri e che si muova al suo interno. Che si fonda con il cemento, che si rifletta sulle decorazioni a mosaico, che riverberi la sua luce sui soffitti. Che irradi la vibrazione dell’acqua sulle superfici, come se non esistesse nessun confine. Come se natura e architettura fossero inconcepibili se non insieme. E vita e morte non avessero senso se non insieme.

 

“Cerco un moderno Faraone che mi faccia edificare la sua piramide.”

 

Secondo una tradizione giapponese lunga di quasi sei secoli, dopo la morte della carne, lo spirito umano ritorna all’acqua. Supera l’ostacolo della vita oltre la morte e continua a vivere. Ritorna per essere onorato una volta l’anno, per tre giorni, durante il mese più caldo.

Allo stesso modo l’architettura di Scarpa viene restituita all’acqua. L’elemento da cui nasce la sua poetica. Dove affonda le sue radici. Come un albero di mangrovia.

Come da tradizione giapponese, una volta l’anno potremmo vestirci di tutto punto, portarci dietro qualche dolcetto, andare alla Tomba Brion e onorare la memoria di Carlo Scarpa. Colui che ha intessuto la storia di due innamorati capaci di trascendere la morte attraverso la sua architettura.

 

Fonti

Biraghi M., Storia dell’architettura contemporanea. Vol. 2

Cose d’Arte | Tomba Brion

Tomba Brion ad Altivole. Il capolavoro di Carlo Scarpa

Foto di copertina. Rielaborazione

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