L’architettura di Mussolini
Delineare il ruolo di Mussolini in maniera precisa è molto difficile. E’ più semplice parlare di più ruoli contemporaneamente. Mussolini è stato il capo di molte cose e in molti settori.
Definirlo capo di stato potrebbe essere paradossalmente riduttivo. Il suo potere decisionale si è espanso a macchia d’olio eliminando la buona pratica della delega a terzi. Probabilmente perché non c’era nessuno di fidato.
Tra i settori in cui ha esercitato la sua influenza con passione, l’architettura è certamente quello più importante.
La questione dello stile di regime è stata fra le più dibattute.
A questo proposito si è espresso più volte servendosi dell’architettura come strumento di propaganda fascista. L’obiettivo era esprimere attraverso un uso calcolato dello stile la potenza dello stato prima e dell’impero poi.
E fin qui niente di nuovo all’orizzonte.
Il fatto è che Mussolini ha preso talmente a cuore la cosa da essere lui stesso ad avere il ruolo di vero architetto di regime. Gli architetti veri, quelli con la laurea, andavano e venivano. Erano la sua matita. Molti hanno cavalcato l’onda ma nessuno è mai riuscito a diventare lo Speer di Mussolini.
Quindi sulle questioni di architettura il potere era in mano sua al 100%.
L’architettura è stata un mezzo potentissimo per la conquista delle masse, sulle quali si basava tutto il suo successo politico. Il piano era convincere il popolo di essere al sicuro, di avere un capo che di meglio non ce n’era e contemporaneamente fare dell’Italia una grande nazione. Fantastico.
Alla conquista del mondo
Il problema era la questione economica che Mussolini aveva un po’ ignorato.
Effettivamente non eravamo molto ricchi. Avremo modo di approfondire questo aspetto.
Per portare a compimento questo programma politico, l’invadenza di Mussolini raggiungeva livelli a tratti imbarazzanti. Si è improvvisato architetto e ingegnere, suggerendo e imponendo soluzioni strutturali a volte irrealizzabili.
“Voglio erigere una colonna monumentale sul cucuzzolo di quella montagna! Architetto, Proceda!”
“Ma illustrissimo, probabilmente vossignoria intendeva a valle, OLTRE il cucuzzolo quella montagna”
“Si, certo, esatto! Ma che fa ripete quello che ho appena detto? E’ forse impazzito?!”
(dialoghi immaginari, ma veritieri, forse)
Fortunatamente in quel caso era compito dei suoi consiglieri, Marcello Piacentini in testa, farsi carico di comunicare al Duce che una certa cosa non si poteva proprio fare.
A volte andava oltre le realistiche possibilità degli stessi materiali, immaginava strutture impossibili. Fighissime sulla carta (vedi l’arco trionfale per l’E42), ma irrealizzabili nella realtà.
E più volte gli capitava di approvare la costruzione di un progetto con uno stile diametralmente opposto a quello che aveva sostenuto fino a un minuto prima. Chi doveva avvertirlo della svista non era molto felice di essere il suo interlocutore. Un minimo di strizza doveva averla.
Capitava che la questione facesse saltare qualche testa.
Metaforicamente. Ma anche fisicamente, alla moda Luigi XVI.
Calcestruzzo armato alla riscossa
Il calcestruzzo armato (e non cemento!) viene introdotto nell’edilizia di quest’epoca molto gradualmente. Il tutto fortemente condizionato dalla politica. Scegliere di costruire un edificio, soprattutto ufficiale, in calcestruzzo armato poteva significare molte cose.
Una promessa di progresso.
Una dichiarazione di potere economico.
Il manifesto della rivoluzione del popolo. E della politica.
Un’opportunità per guadagnare terreno.
Ma soprattutto evitare di riproporre lo stesso stile classico, rinascimentale, neoclassico che ritornava ciclicamente per combattere la novità e ritrovare noi stessi. Come identità di popolo, culla della civiltà.
L’Italia del progresso tecnologico nell’era di Mussolini in realtà ha avuto una vita troppo breve.
Lo sfavillante momento di emancipazione dal classico/tradizionale è durato giusto il tempo necessario per costruire un personaggio politico forte ed una base stabile di fiducia.
Oltre ad aprire irrimediabilmente le menti di giovani architetti. Molti di loro da quel momento non hanno fatto altro che tentare di far combaciare la modernità con il cambio di rotta di Mussolini.
Più o meno come si cerca di infilare un cubo di legno in un buco a forma di triangolo.
Era difficile stargli dietro, il programma politico seguiva il filone architettonico. O meglio, il programma politico decideva il filone architettonico da seguire e coltivare.
Ora moderno, ora classico. Ora innovativo, ora tradizionale.
Sacro o profano?
All’inizio era necessario rappresentare lo spirito della rivoluzione fascista, la ribellione al sistema politico tradizionale, la marcia su Roma.
I giovani architetti razionalisti avevano trovato il loro spazio. Le novità in campo tecnologico andavano di pari passo con il loro forte patriottismo e la curiosità tipicamente giovanili.
Il calcestruzzo armato, anche se con molta difficoltà, emerge e si dichiara materiale fascista del futuro. Eccolo qui, lo spirito della rivoluzione si fa materia.
Poi però tutta la trasparenza del vetro e la flessibilità dell’acciaio diventano contro ogni pronostico, sinonimo di fragilità e questo era inaccettabile per il regime fascista. Mussolini decide che il messaggio che deve trasparire dall’architettura di regime non può essere
“Guardateci, siamo l’Italia e siamo all’avanguardia. Stiamo al passo con la tecnologia e siamo ricchi (non abbiamo nulla ma possiamo permetterci di importare tutto) quindi occhio che potremmo essere un problema economico per tutti voi dell’Europa”
No. Lui pensava piuttosto ad un messaggio tipo
“Guardateci, siamo l’Italia e siamo un paese solido e possente. Siamo soldati. Potremmo armarci da un momento all’altro, quindi occhio che potremmo farvi il culo”
E via, ecco la virata verso lo stile classico che facciamo fatica ad abbandonare in ogni epoca. Mentre gli altri corrono alla velocità della luce e si inventano palazzi che sembrano usciti da Star Trek, noi torniamo alla colonna, grazie.
Non che quello stile avveniristico non ci piacesse, per carità, ma l’esigenza di novità ormai si era esaurita, nonostante i bei progetti dei nostri.
La forza fisica del contadino Mussolini
Monumentalità è la parola d’ordine. Edifici ben ancorati al suolo che nemmeno le bombe possono tirare giù (forse). Salda manifestazione del potere, dell’italianità, dell’identità del nostro popolo discendente fiero del popolo romano. Un popolo di combattenti.
Nel frattempo Mussolini andava a mietere il grano e pigiare l’uva.
Viene pubblicamente bandito il calcestruzzo armato, anche se in realtà viene ancora usato e celato sotto pesantissimi rivestimenti in pietra rigorosamente italiana.
Il calcestruzzo armato viene relegato al gradino più basso tra i materiali e bollato come vezzo da esterofili, mentre Mussolini predicava a tutti gli Italiani la necessità di essere Italiani.
Insomma, “non passa lo straniero”, come recitava la canzone. In architettura, nell’arte e in politica.
Chiuso per autarchia
Il tutto si traduce in una chiusura quasi totale alla cultura estera. Le Corbusier, che ammira Mussolini e gli chiede udienza, vorrebbe partecipare ai bandi di concorso (truccati) indetti dal regime, ma viene clamorosamente respinto.
Nella pratica Mussolini non aveva le idee troppo chiare in materia di architettura, soprattutto per quanto riguarda gli edifici pubblici, alla fine la questione dello stile restava un immenso punto di domanda nonostante le sue dichiarazioni pubbliche.
Dallo stile classico viriamo lentamente verso lo stile littorio fino ad arrivare al massimo risultato dell’architettura fascista: l’esposizione universale italiana E42. E con questa esperienza si chiude la sua avventura da architetto.
Piacentini, a cui Mussolini si affida volentieri, ha in mano la gestione dei grandi cantieri fascisti tra cui i palazzi universitari a Roma e, appunto, l’E42. Apice e decadimento rovinoso dell’architettura e del regime fascista.
Lo stile ufficiale, lo stile romano, era una commistione tra vecchio e nuovo, estremizzazione della classicità monumentale, ma dotata di un apparato tecnologico avanzato e nascosto.
Materiali e patriottismo
Memorabile ad esempio, il Palazzo delle Civiltà, o Colosseo Quadrato. Trionfali arcate sulle quattro facce del edificio sostenute da un efficientissimo sistema costruttivo in calcestruzzo armato.
I pochi edifici portati a termine, celebravano la grandezza dell’impero alla fine dei suoi giorni, in un disperato tentativo di mantenere integre le apparenze.
I soldi erano finiti e il ferro anche. Hanno fuso tutto nell’industria bellica, anche le cancellate intorno alle case visto che l’autarchia ne impediva l’importazione. Anche le fedi delle donne, che già non avevano più mariti e figli e ora nemmeno le vere nuziali che ricordassero loro di averli avuti. Al momento l’unico anello era al naso.
Il processo di soggiogamento era concluso.
Era una celebrazione anacronistica del possente popolo dominatore caduto in battaglia. Ahimè.
Il classicismo eclettico scelto per questi edifici non aveva bisogno di materiali stranieri, di stili di respiro europeo. L’innovazione era la tradizione. In pratica un ossimoro. Una figura retorica fatta di murature tradizionali, materiali autoctoni, strutture pesanti e tarchiate, solide e radicate.
Si propongono incredibili, fantasiose versioni.
Calcestruzzo armato di alluminio, amianto, bambù.
Anche se poi un po’ di ferro riuscivano sempre a trovarlo per gli edifici di rappresentanza. Però lo nascondevano bene. Era meglio che almeno loro riuscissero a tenersi in piedi mentre il resto affondava. Alla fine era una bugia a fin di bene che a volte è meglio di cinquecento verità.